Nell’Ottocento l’argilla veniva raccolta nelle cave nei mesi estivi e trasportata nei locali umidi della fabbrica, dove restava a maturare per l’inverno e la primavera successivi. In primavera le terre venivano mescolate tra loro con la zappa in un’apposita fossa (“tampa”) di forma rotonda, stemperate con l’acqua e setacciate più volte con strumenti di seta o di ferro. L’argilla veniva dunque lasciata nuovamente riposare ed asciugare, ed infine trasferita in fosse di forma ovale, dove gli operai la impastavano con i piedi nudi, aggiungendo, ove necessario, acqua o sabbia. Raggiunto il giusto grado di compattezza gli operai facevano con le mani delle palle di argilla che scagliavano contro un muro; questo aveva dei mattoni sporgenti che sostenevano l’argilla, che così si rassodava ed asciugava. Raccolta e posata su di un bancone all’interno del laboratorio, veniva battuta ripetutamente con un asta di ferro a sezione quadrata, poi divisa in pani e consegnata ai foggiatori.
Nel Novecento il materiale (argille di diversa provenienza, caolino, quarzite, ghiaia) veniva macinato a pietra e passato nelle caroline, ossia molini a motore a cilindro orizzontali. L’impasto veniva asciugato nelle presse orizzontali a dischi di tessuto, poi messo a maturare sotto tele di sacco bagnate. Quando assumeva la solidità e la morbidezza volute, veniva messo nella macchina impastatrice da dove usciva trafilata in “pani”.
I pani venivano tagliati con un filo di ferro (nel Novecento con una apposita macchina a vite) in lastre rotonde. L’apprendista prendeva un disco di argilla e lo lasciava cadere con forza su di un modello in gesso, che a sua volta era assicurato alla campana di ghisa di un tornio. Il foggiatore a quel punto, attivato il tornio, abbassava un braccio metallico (la “bascula”), che portava ad una estremità un utensile (la “stecca”) con il profilo del raggio del piatto che si voleva ottenere, e foggiava il pezzo. I tipi più complessi venivano invece foggiati mediante colaggio: in una forma in gesso veniva colata argilla liquida (la “barbottina”) che, una volta asciugata, assumeva la forma voluta.
I pezzi foggiati e lasciati essiccare venivano impilati in caselle cilindriche di materiale refrattario, per evitare il contatto diretto con le fiamme del forno. Impilate e sigillate tra loro con strisce di argilla, le caselle venivano poste nel forno.
Le fornaci più antiche erano composte da una camera di combustione e di due camere di cottura sovrapposte: in quella più alta e più calda venivano posti i pezzi crudi; in quella inferiore, meno calda, i pezzi in biscotto prodotti in una cottura precedente e poi decorati e verniciati.
Le camere erano chiuse ermeticamente con mattoni e malta, con alcuni piccoli fori (dette “spie”) per il controllo della cottura. Il fuoco durava più di 24 ore, alimentato da fascine di castagno.Nel corso dell’Ottocento, con l’ingrandirsi delle fabbriche e dei volumi della produzione le due cotture diventarono indipendenti, in due forni separati e più semplici: uno per i crudi, un altro per il biscotto verniciato. Negli ultimi decenni del secolo il carbone cominciò a sostituire la legna, e le maggiori fabbriche del distretto si dotarono di grandi forni “Hoffman” a galleria.
Nella prima metà dell’Ottocento a Mondovì i sistemi di decorazione erano relativamente semplici: si usava il pennello, supportato da spugne naturali intagliate o grezze. Nella seconda parte del secolo il pennello perse progressivamente spazio a vantaggio di spugne, timbri di diverso tipo e mascherine. Nel Novecento fu introdotta la decorazione a mascherina in lamina metallica e pistola ad aria compressa (“a sbruffo”). Un sistema ricercato e complesso era il transfer print, grazie a cui veniva trasferito sul biscotto un disegno inciso su lastra di rame. I pezzi decorati venivano poi immersi uno alla volta in grandi tinozze con la vernice silicea in sospensione acquosa, lasciati asciugare e condotti alla seconda e definitiva cottura.